“Il ponte di Genova, le ricorrenze che offendono i morti innocenti e la giustizia negata”

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I drammi umani si misurano con il dolore delle assenze. Il dolore umano si calcola con i numeri delle tragedie dall’uomo prodotte. A Genova ce n’è una che su numeri precisi si misura. Anche se c’è chi vuole cancellarne qualcuno, affinché eliminatoli si cancellino tutti.

E con i numeri, nascondere chi è cosa vi sta dietro. Persone e responsabilità. Le persone divise sulle responsabilità e sulle loro conseguenze. Sono le vittime, l’infinita scia di dolore per esse. Sono i responsabili di quelle morti e del dolore più esteso che hanno provocato nell’intera comunità nazionale e locale. Genova significa il famoso ponte. Famoso due volte.

Per il genio, che l’ha creato, l’ingegnere Morandi, che di quei ponti ne ha fatto tanti nel mondo. Un gemello si trova a Catanzaro, da quel destino genovese in ristrutturazione. Famoso per il crollo che l’ha visto, quasi in diretta televisiva, rompersi e sbriciolarsi davanti al mondo.

I numeri. Che parlano del dramma e dello scandalo insieme. Il dramma per le rovine, materiali e umane. Lo scandalo perché nell’Europa moderna e nella sua regione più progredita e ricca, é potuto accadere questa brutta cosa. Sei anni. Sono passati sei anni da quando è crollato. Due. Due anni, per la più rapida costruzione, e sullo stesso posto, di un’opera di alta ingegneria. Quasi un record di stampo cinese. Quarantatré morti. Ciascuna morte moltiplicata, al minimo del calcolo, per sei familiari.

E sono duecentocinquantotto vittime secondarie o del dolore di ritorno. Si aggiungano gli amici. Calcolando al minimo quattro per ciascun caduto, fanno centosettandue. Cinquantasei famiglie sfollate. Anche qui, al minimo di quattro a nucleo familiare, diventano duecentoventiquattro. Per il totale di novecentotrentatre.

Tante sono le persone condannate a un dolore senza fine. Per fare gli stessi calcoli, un tempo di sei per sessanta volte sei. E di più. Moltiplicato sempre per sei. Ma il dramma é anche della Città, Genova, colpita al cuore. Nella sua storia di civiltà. Nel suo corpo di robustezza e modernità. Nelle sue grandi prospettive di altra crescita.

Genova é il capoluogo della Liguria, una delle regioni più civili e attrezzate d’Europa. Genova ha una popolazione di circa seicentomila abitanti. Quel crollo, pertanto, ha esteso l’immane dolore e quel senso collettivo di umiliazione a seicentomila persone. Tutte innocenti. Ancora i due numeri più allarmanti oggi. Sei anni sono passati e ancora non vi sono colpevoli accertati e giudicati.

Cinquantotto sono gli uomini sotto un processo che dura ormai da due anni e un mese. Sono dirigenti, funzionari e tecnici di Autostrade per l’Italia, ministero delle Infrastrutture e Spea, la società responsabile delle manutenzioni e delle ispezioni. Si dice che dovrebbe concludersi tra un anno o poco più. É facile, pertanto, immaginare che tra problemi oggettivi, ritardi cronici del sistema, tecnicismi vari e tatticismi difensivi, quel termine dovrebbe essere di un bel po’ allungato.

Otto o dieci anni per arrivare ai colpevoli. In primo grado. Presunti innocenti per la legge italiana, che prevede tre gradi di giudizio per l’affermazione della verità giudiziaria. Considerando le beghe politiche , le lacune della Giurisdizione, i forti interessi in campo e i veri poteri che vi stanno dietro, avremo una sentenza definitiva non prima di un quindicennio.

Per essere ottimisti. Come lo saremmo se immaginassimo, che, come i grandi processi nella storia del Paese, pochi saranno i colpevoli tra i cinquantotto. E tutti condannati a pene minime. Mentre il più ottimistico pessimismo ci porta già a prevedere che, come nei maggiori drammi della storia recente italiana, i veri colpevoli la faranno franca anche questa volta. Non è vero Italicus? Non è vero piazza Fontana e della Loggia? Non é vero delitti Ligato, Scopelliti, Fortugno, per andare un attimo in Calabria?

Queste domande, pretendono una risposta quantomai necessaria in questo tempo di guerre infinite e di povertà arrese. É che non si celebrino queste ricorrenze luttuose e amare di verità negate, fino a quando non sarà fatta giustizia piena. Non si usino i drammi consumati nel paese delle Democrazia, per fare il ballo delle “deresponsabilità”. Quelle oggettive, dello Stato. E le soggettive, degli uomini dello Stato.

La si smetta di farci belli con il dolore delle persone. Si chiudano cortei e processioni laiche dietro i morti ammazzati da una società assurda e contraddittoria nei principi di umanità affermati nel mentre li si nega. Basta con le dichiarazione che, a risme sempre più alte, escono dagli uffici stampa dei palazzi del potere. Si rispetti il dolore di chi ha perso le persone più care. E la dignità dei morti innocenti. Non ci bastano più le parole. Quelle vuote offendono. Quelle ripetute disgustano. Basta. O Giustizia o silenzio“.
Franco Cimino

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