L’autonomia differenziata nell’Italia a due velocità

Riceviamo e pubblichiamo:

 

“Sono solo appunti di lavoro”, con questa espressione il Ministro per gli Affari Regionali Roberto Calderoli ha cercato di rassicurare la maggior parte dei Presidenti delle Regioni del Sud, preoccupati che la bozza del disegno di legge contenente “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art. 116, terzo comma, della Costituzione”, rischi di accentuare il divario tra il Nord e il Sud del Paese. Le critiche più rilevanti riguardano la preliminare definizione dei Livelli Essenziali di Prestazioni (LEP), posto che la bozza prevede che, in mancanza di definizione di questi entro dodici mesi dall’approvazione della legge, i trasferimenti dei fondi dallo Stato alle Regioni per lo svolgimento delle nuove funzioni,  siano calcolati secondo il criterio della spesa storica, criterio che svantaggerebbe il Sud, per il quale la spesa è stata negli anni inferiore rispetto al Nord che, invece, spende di più perché offre più servizi e richiede ai cittadini un maggiore sforzo fiscale. C’è poi la questione legata al depauperamento del ruolo che avrebbe il Parlamento, chiamato ad una “mera approvazione a maggioranza assoluta” dell’intesa Stato-Regione, senza possibilità di incidere sul contenuto della stessa.

 

Dopo anni di oscurità e tentativi falliti, l’autonomia differenziata, battezzata anche come asimmetrica, à la carte, a geometria variabile, a doppia velocità, ha fatto il suo ingresso nel dibattito politico al fine di trovare un bilanciamento tra la valorizzazione delle autonomie territoriali e la tutela dell’unità nazionale (art. 5 Cost.) e il pieno godimento dei diritti in tutto il territorio nazionale, nel rispetto delle esigenze di solidarietà e uguaglianza (art. 2 e 3 Cost). Il trasferimento di nuove materie alle regioni richiede che la finanza regionale abbia un bilancio in equilibrio, che le funzioni ulteriori abbiano una copertura adeguata e che vi sia l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea. L’art. 119 prevede, poi, l’istituzione di un fondo perequativo che   consente alle regioni con minore capacità fiscale di finanziare integralmente i Lep nella misura in cui i gettiti dei tributi regionali non siano sufficienti a garantire l’uguaglianza dei cittadini dei diversi territori nell’accesso e nel godimento dei diritti sociali.  La disposizione costituzionale, conduce, quindi, il federalismo differenziato nell’alveo del federalismo fiscale tant’è che la richiesta di autonomia differenziata avanzata da alcune regioni è stata letta come un tentativo di riportare al centro del dibattito la mancata o incompleta attuazione dell’autonomia finanziaria territoriale.

 

Il criterio del fabbisogno standard, che ha soppiantato quello della spesa storica, stima quanto serve agli enti locali per erogare alcuni fondamentali servizi. E questo ci riporta nuovamente alla prioritaria individuazione dei LEP, ovvero a quei livelli essenziali delle prestazioni per i servizi concernenti diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e che oggi trovano applicazione solo in ambito sanitario là dove sono da tempo definiti i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). Determinazione che è di competenza esclusiva statale e appare un prius logico rispetto alla determinazione dei fabbisogni standard.

 

Il principio del regionalismo differenziato emergente dalla nostra Costituzione può essere, quindi, realizzato a patto che, accanto alla determinazione dei LEP, il legislatore fissi criteri uniformi di perequazione finanziaria, con attenzione anche a quelli infrastrutturali, finalizzati alla riduzione del divario tra il Nord e il Sud del Paese, in modo da rendere possibile la realizzazione del processo di autonomia, attuando al contempo i principi di coesione e solidarietà nazionale. Al fine di evitare di svuotare di contenuto l’art. 117 Cost. e di mortificare la ratio che lo stesso esprime, sarebbe opportuno, inoltre, che il disegno di legge per l’attuazione dell’autonomia differenziata prevedesse, per le regioni che presentino istanze di autonomia in determinate materie, adeguate motivazioni legate all’esperienza sociale, culturale, politica, acquisita dalla regione in quel determinato settore, oppure alle esigenze che emergono in determinati territori. Del resto, già in seno ai lavori dell’Assemblea Costituente sulla individuazione delle competenze regionali, si registrarono posizioni diametralmente opposte. Quella di Einaudi che sottolineava che: “L’Italia è uno Stato unitario, di tal ché la soluzione migliore sarebbe quella che la Costituzione attribuisse alle regioni determinate competenze anziché prevedere che esse possano esercitare una pienezza di poteri su tutto quanto non riservato espressamente allo Stato”, e quella di Cossu che asseriva che: “Il centralismo statale così com’è oggi, non risponde né alle esigenze né alle aspirazioni del Paese”.  Solo nel rispetto di queste condizioni, l’autonomia differenziata potrà rappresentare un’importante sfida per le regioni, uno strumento di potenziale crescita e sviluppo del Paese. Ed è esclusivamente scommettendo sull’assunzione di responsabilità di ogni singola regione che, la straordinaria diversità locale che la nostra Terra esprime, potrà raggiungere il suo momento di sintesi in quella “identità italiana” che tutte le realtà territoriali richiama a sé.

 

Avvocato Stefania Valente