Il Grande Jonio. L’Audacia Magno Greca a New York

Questa sera Jannik Sinner tenta l’impresa agli US Open di tennis. Isidoro Pennisi ricorda la  finale di nove anni fa tutta al femminile jonico: Vinci - Pennetta

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di Isidoro Pennisi*

L’audacia è una razionalità visionaria, che ci fa vedere della vita lì dove essa non appare, delle esperienze inedite lì dove altri cercano solo una migliore forma pratica di ciò che già esiste. L’audace vede in una lavatrice le mani che in passato si sono bagnate al freddo dei ruscelli; in una lampada al neon le candele che hanno permesso agli occhi di scrivere, a notte fonda, lettere d’amore o testi memorabili. L’audacia rifiuta l’empirismo: non se ne cura. L’empirismo, infatti, non contempla i miracoli, ed essi, al contrario, accadono.

L’empirismo, l’esattezza, la scienza, i dati, in quel Venerdì undici Settembre del 2015 a New York, sul Campo Centrale Arthur Ashe di Flushing Meadows si nascosero per la vergogna.

Serena Williams era ormai vicina al Grande Slam, che per essere conquistato richiede ventotto vittorie consecutive in quattro nazioni e tre continenti diversi, nell’arco di otto mesi: Australia, Europa e America. Ancora due incontri su ventotto e poi, anche lei, poteva essere un capitolo della Storia immortale del Tennis. Solo due partite ancora da vincere, da giocare a casa, sotto lo sguardo e i cuori dei suoi connazionali e contro due avversarie italiane, sempre battute: una di Taranto, con cui stava per iniziare a giocare la semifinale, e l’altra di Brindisi che si era già guadagnata la finale un’ora prima. Serena Williams in quel momento era la Regina, assoluta, senza rivali al trono. Il Grande Slam non era da conquistare ma soltanto da raccogliere. Era un fatto dovuto, e non c’erano discussioni. Le due italiane rimaste con lei erano delle semplici Dame di Compagnia e questa era una cosa che sapevano tutti tranne loro due.

Quel giorno di Settembre toccava però prima a Roberta Vinci, venuta sin lì da Taranto, mettere in discussione destino e certezze, numeri e realtà.

Roberta Vinci ha nel suo cognome, nelle radici tarantine, Magno Greche, Joniche, una secolare abitudine all’Agone. E cioè a quel luogo dove per mezzo del confronto sportivo, ci si educa alla sfida umana, e alla capacità di accettare i termini di una grande impresa, quando essa nella vita si presenta e bussa alla porta. Roberta Vinci non tentò quel giorno di vincere una partita. Quel giorno il Grande Tempo degli umani, le chiese di essere lo strumento utile a dimostrare che le grandi imprese sono possibili se hanno come interpreti donne e uomini forgiate da anima agonistica. E lei semplicemente ubbidì. Perché nella vita non ci sono solo i tentativi, che a volte riescono come altre no, ma per alcuni esseri umani vi sono gli appuntamenti con l’Anima del Mondo, che chiede qualche cosa. Quel giorno la tattica era chiara:

“Roberta, sai aspettare?”

“Io so bruciare mio caro Mondo”

“Fino alle braci?”

“Fino alle braci e anche di più”.

“È perfetto”

Quel pomeriggio a New York non avvenne un miracolo ma si manifestò un atto poetico. Anche il Tennis, come l’amore, ha nel Tennis il solo argomento. Alla stessa maniera dell’amore, però, capita che un incontro non conti per il risultato in sé, ma per come sarà cantato nel futuro. Per la speranza che alimenterà. Per l’esempio che darà. Roberta Vinci allora ribaltò il Mondo, vinse, andò in finale contro Flavia Pennetta, mettendo in chiaro a chiunque che non esiste dato di fatto che gli esseri umani non possano mettere in discussione. Niente è così sia. Non lo è nemmeno la vittoria di Serena Williams a New York; ad un passo da un’eternità chiamata Grande Slam.

Esistono un Privilegio e un Colore tra le Coste Elleniche e Magno Greche. I loro nomi sono Fortuna di Jonio e Tintura di Jonio, e sono curative: per il corpo e lo sguardo. Sono le tensioni, la natura inquieta, le contraddizioni, le notizie profonde, le onde di un umore, che trasformarono un grande bacino d’acqua salata in Colei che fu amata da Zeus e, ovviamente, per gelosia, perseguitata da Era.

Per sfuggirle, Colei che ancora non si chiamava Jonio, si mise a nuotare dentro una distesa liquida d’azzurro, ancora senza nome e senza carattere. Una bracciata dopo l’altra, quell’acqua senza destino si aprì al passare del suo corpo, e si fece di lato, allargandosi a nord sino al Golfo di Taranto e a Sud sino a Siracusa, diventando miracolosamente un Mare.

Colei aveva un nome: Efigenia. Salvata da Artemide, che le dovette cambiare il nome in Eugenia, per salvarla da una condanna per decapitazione, prima né maturò la bellezza e poi gli disse: “Vai. Ora è tempo che tutta quest’acqua, piatta e specchiante come una lastra di Onice Africano, appaia finalmente ondosa, ventosa, spumeggiante, pericolosa, giocosa, come voi esseri umani. Chiamerai tutto questo Jonio e tu ne sarai la Madre, l’Amante, la Figlia”.

Non esiste differenza tra lo Jonio e le Joniche. Lo Jonio è la realtà geografica e cardiaca con cui un’emozione fece spazio all’incanto.

*scrittore, docente Università Mediterranea

 

 

 

 

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